Cultura, sistema, narrazione: ripensare la cura – Intervista a Marco Testa

image-76-2Marco Testa è cardiologo presso l’Azienda Ospedaliero-Universitaria Sant’Andrea di Roma, specializzato in cardiologia clinica e molecolare. Docente alla Sapienza Università di Roma, integra l’insegnamento clinico con le Medical Humanities, promuovendo un approccio centrato sulla persona.
Presidente della Società Italiana di Medicina Narrativa (SIMeN), si dedica alla diffusione della Medicina Narrativa come pratica clinica integrata, valorizzando l’ascolto attivo, la scrittura riflessiva e la formazione umanistica. Con il suo impegno contribuisce a innovare la relazione di cura, rendendola più partecipata e attenta al vissuto individuale.

Cosa rappresenta per te come medico la medicina narrativa?

Grazie per questa domanda che mi permette di ripercorrere quello che ritengo un percorso di crescita personale e professionale, che parte dai primi anni del corso di laurea e arriva fino ad oggi, fino al mio impegno come presidente della Società Italiana di Medicina Narrativa – SIMeN.

La Medicina Narrativa rappresenta per me innanzitutto un ritorno alle origini più autentiche della professione medica. Come già ci diceva Karl Jaspers alcuni decenni or sono, e da allora sempre di più, la professione medica, sta andando in una direzione ipertecnologica che rischia di portarci a riparare un corpo, anzi spesso solo isolati organi, piuttosto che curare una persona.

La Medicina Narrativa ha permesso a me, e così spero sia anche per molti altri, di ritrovare quella dimensione relazionale che avevo intuito già durante gli anni universitari, quando seguivo i corsi di antropologia medica e bioetica del Professor Sandro Spinsanti, un vero pioniere per l’Italia, e non solo, di una necessaria riacquisizione di anima della medicina. È stata una vera e propria rivoluzione copernicana: aver rimesso al centro la persona mi ha dato nuove motivazioni per la mia professione.

Per me la Medicina Narrativa è in primis una “postura”- come ci spiega magistralmente Paolo Trenta – un modo di stare nella relazione di cura che riconosce nell’altro non un oggetto di studio, ma un soggetto portatore di senso, una persona che vive la malattia con tutto il suo bagaglio esistenziale.

Non si tratta di essere semplicemente gentili o umani – quello è imprescindibile per chiunque – ma, in accordo con la Consensus Conference dell’Istituto Superiore di Sanità del 2015, di avere competenze specifiche per utilizzare la narrazione per “acquisire, comprendere e integrare” il punto di vista di tutte le persone che intervengono nel processo di cura con il fine di creare un progetto terapeutico tagliato sempre di più addosso alla persona.

Perché serve a essere un curante?

La Medicina Narrativa serve al curante perché gli permette di offrire una medicina migliore, più completa e più efficace. Quando integriamo l’ascolto narrativo con il colloquio clinico e la diagnostica, otteniamo una personalizzazione bio-psico-sociale del percorso di cura che va ben oltre quello che possiamo raggiungere con la sola Evidence-Based Medicine.

Nel mio lavoro di cardiologo, ho scoperto che, quando un paziente con scompenso cardiaco mi dice che il suo cuore è “come un motore che va a singhiozzo”, non mi sta solo descrivendo un sintomo – mi sta offrendo l’accesso al mondo della sua esperienza. Le metafore che utilizzano i pazienti – nei miei studi ho visto come chi accetta un defibrillatore lo descrive come “paracadute” o “rete di salvataggio”, mentre chi non l’accetta lo vede come “intruso” – ci permettono di adattare la comunicazione e supportare i pazienti anche dal punto di vista esistenziale.

Ma la Medicina Narrativa serve al curante anche per proteggersi dal burnout. Come dice Anatole Broyard, “rinunciare a un po’ dell’autorevolezza del medico in cambio di più umanità non è un cattivo affare, perché imparando a entrare maggiormente in relazione con i propri pazienti, il medico può imparare ad amare meglio il proprio lavoro”. Passare da una logica prestazionale a una logica relazionale comporta vantaggi enormi anche per noi operatori: essere riconosciuti come persone, con le nostre competenze ma anche le nostre fragilità, ci aiuta a prevenire l’esaurimento emotivo.

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