Incapaci di raccontarsi. L’esclusiva attenzione alla clinica
Il paziente è al centro della cura se è inserito in un dialogo bidirezionale in cui anche medici e infermieri siano capaci di una relazione educata tra chi cura e chi cerca cura
Articolo di Lucia Fontanella su Forward
Sappiamo che la comunicazione è un inevitabile processo relazionale sociale attraverso il quale si scambiano informazioni. Le informazioni vengono interpretate e rielaborate in base a paradigmi individuali. Un processo comunicativo prevede dunque relazione e contenuto. La relazione non può d’altra parte prescindere dall’ambiente. Il processo comunicativo è molto complesso proprio per le infinite possibilità interpretative e l’infinita varietà degli ambienti. Tanto maggiori sono l’affinità dell’ambiente e la qualità della relazione fra emittente e ricevente tanto più probabilmente l’interpretazione del contenuto da parte del ricevente si avvicinerà a quella dell’emittente, producendo quella che si chiama una comunicazione efficace.
In parole molto più semplici stiamo dicendo che un processo comunicativo in cui manchi relazione o contenuto rischia fortemente di non funzionare. Incontriamo ogni giorno molti esempi di comunicazione con carenza di contenuto o di relazione, e, quasi sempre, anche senza la competenza di formulare una teoria linguistica, ci pare che qualcosa sia andato storto o comunque non ci sia piaciuto. In particolare è la comunicazione con poca, o senza relazione che ci disturba. E se c’è un ambito in cui la si può incontrare facilmente, è proprio quello del rapporto medico-paziente. Nonostante negli ultimi anni si siano di molto intensificati gli studi che evidenziano quanto incida sui risultati della cura la qualità della relazione di cura, le cose non paiono cambiare sensibilmente, o almeno con la rapidità che avremmo desiderato. Per cambiare occorrono diversa attitudine, diverse convinzioni, diversa formazione, diversa organizzazione del tempo. Ma occorre anche una qualche scintilla che metta in moto il cambiamento, meglio poi se di scintille ce n’è più d’una. Senza pensare a strani meccanismi, potremmo iniziare col dare spazio alla voglia di raccontarci e di farci raccontare. Poche cose come il racconto, infatti, creano ambienti, tessono relazioni e portano a riflettere.
Da otto anni, dopo una brutta disavventura di salute, per quelle strane combinazioni che chiamiamo casi della vita, mi chiamano qua e là a raccontare a medici e infermieri la mia esperienza di paziente. Pare che a pochi piaccia raccontare, e pare anche che la mia professione, occuparmi di lingua e comunicazione, aggiunga al racconto spunti di riflessione utili. Le prime volte ero molto, molto stupita dall’interesse che i miei racconti, ricordi, considerazioni suscitavano in chi ascoltava. Col passare del tempo provo meno stupore, ma più curiosità per capire.
Come può il racconto di ciò che tutti i giorni passa davanti ai loro occhi (parlo di medici e infermieri) – perché certo è che a me non sono capitate cose tanto diverse da quelle che capitano a tanti altri – colpirli così tanto? Non vedono, non sentono, non riflettono su ciò che vedono e sentono tutti i giorni? No, non credo che lo facciano. E non perché sono esseri malvagi, ma perché pensano ad altro, sono attenti ad altro, ad aspetti della cura che certo nessuno vorrebbe fossero trascurati. Ma questa indispensabile loro attenzione, parlo sempre di medici e infermieri, è come se restringesse il loro campo visivo. Ma così facendo perdono non solo i nostri segnali di difficoltà e scontento, ma anche quelli di approvazione, gratitudine, solidarietà. Perdono e ci fanno perdere il meglio dell’incontrarsi e capirsi davvero in uno studio, in un ambulatorio, in un ospedale fra chi cura e chi cerca cura. continua a leggere