Il posto dell’arte nella medical education

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Un numero open access della rivista Senses and Sciences dedicato a riflettere sul ruolo dell’arte nella medical education. Tra i contributi proposti anche un articolo del filosofo Alessandro Franceschini che mette in luce come l’osservazione attiva dell’arte risulta essere particolarmente significativa per favorire il benessere stesso dei professionisti della salute e lo sviluppo delle competenze specifiche che li riguardano.

Articolo di Alessandro Franceschini su Sense and Sciences, Vol 6 No 2 (2019), doi: 10.14616/sands- 2019-6-753756

(versione in lingua italiana)

Il contributo delle humanities, nella medical education, può aiutare a prendere in considerazione in maniera adeguata la complessità e la totalità che caratterizzano i protagonisti della relazione di cura, evitando il riduzionismo che spesso si riscontra nella pratica medica. L’osservazione attiva dell’arte risulta essere particolarmente significativa per favorire il benessere stesso dei professionisti della salute e lo sviluppo delle competenze specifiche che li riguardano.

 

Riguardo la riflessione sul ruolo che l’arte può avere nella medical education, la mia vuole essere una introduzione, tenendo conto delle competenze che dovrebbero possedere i professionisti della salute in funzione dei tratti che caratterizzano la relazione di cura.

Innanzitutto, sarà necessario definire chi sono i soggetti della relazione terapeutica. Quindi l’ammalato e l’operatore sanitario, entrambi esseri umani, persone, che però spesso vivono il loro rapportarsi con disagio. Questa situazione è una conseguenza di quel fenomeno che potremmo definire “un’emorragia di anima” (Spinsanti) che ultimamente caratterizza la scienza medica e la pratica clinica e che, in altri termini, è legato ai molteplici e complessi tratti di quello che è il pensiero dominane della nostra epoca, dove posti di particolare rilievo spettano alla tecnica e all’utile.

Per cercare di capire come questo disagio nella relazione di cura affondi le sue radici nella stessa epistemologia della scienza medica, sarà utile far riferimento al pensiero del filosofo e medico tedesco Karl Jaspers che nella sua opera, intitolata appunto “Il medico nell’età della tecnica”, analizza la trasformazione della figura professionale del curante nel contesto contemporaneo, nell’imperante espansione e dominio della tecnica.

L’attenzione viene subito posta sullo sguardo clinico che, secondo Jaspers, nella pratica del nostro tempo, abbandona sempre più la componente “umanitaria” fondata sulla comunicazione “comprensiva” tra medico e paziente, per attenersi all’oggettività dei dati clinici che la strumentazione tecnica offre.

Precisa però l’Autore che la figura del medico si caratterizza da un lato per la conoscenza scientifica e l’abilità tecnica, dall’altro per l’ethos umanitario. Questi due tratti rimandano a due scenari tra loro differenziati, e che, proprio per questo, non è facile veder composti e unificati nella singola personalità del curante.

Siccome gli uomini non sono cose, il modo in cui sono al mondo e il senso che il mondo assume per loro hanno a che fare con la malattia non meno delle componenti fisico-chimiche che lo sguardo clinico, per le regole imposte dal metodo scientifico che lo esprime, individua come uniche cause. Ma attraverso tale metodo, ciò che è possibile accertare sono i fatti non i significati, la successione causale non la produzione di senso, l’ordine della spiegazione non quello della comprensione, per cui conoscenza scientifica e abilità tecnica si trovano sempre nella condizione di spiegare qualcosa senza nulla comprendere, a meno di non considerare compreso un fenomeno per il solo fatto che gli si è assegnato un nome.

Così, se lo statuto dell’uomo non è lo statuto della cosa, se il suo “comportamento” non è un “movimento” analogo a quello delle cose naturali, la medicina che accostasse l’uomo con le metodiche positive delle scienze della natura – denuncia Jaspers – spiegherebbe dei fatti, ma non comprenderebbe dei significati, l’umano resterebbe fuori dalla sua portata, perché un fatto, spogliato del suo significato, è per definizione in-umano.

Finché la medicina considera il corpo nel suo isolamento, come corpo organico (körper) e non come corpo vivente in un mondo (leib), finché si limita a raccogliere fatti, invece di interrogare i fenomeni, cioè i vissuti soggettivi per quel tanto che sono significanti, la medicina non potrà che collegare una serie di dati “insignificanti”, risultando dunque in-umana.

Alla luce di queste considerazioni, si capisce che la medicina per essere “umana” – non intesa quindi come scienza esatta, quanto piuttosto come attività basata su presupposti scientifici, che opera in un mondo di valori e differisce da altre tecniche perché il suo oggetto è soggetto (Cosmacini) – è chiamata ad essere esercitata necessariamente navigando nella complessità.

In questa ottica risulta essere essenziale alla scienza medica l’apporto delle scienze umane e delle discipline umanistiche, ovvero delle medical humanities.

Di conseguenza è chiaro che, anche la malattia non può che essere interpretata come un fenomeno complesso che non è possibile ridurre esclusivamente al dato clinico.

A tal proposito, i più autorevoli esponenti dell’antropologia medica, Arthur Kleinman e Byron J. Good, invitano a considerare la medicina come un sistema culturale, ovvero un insieme di significati simbolici che modellano sia la realtà clinica, sia l’esperienza che ne fa il soggetto malato, elaborando una definizione di malattia che distingue tre piani di significato ad essa associati, resi da tre parole:

disease, ovvero la malattia intesa in senso biomedico come lesione organica o aggressione da parte di agenti esterni, evento oggettivabile e misurabile mediante una serie di parametri organici di natura fisico-chimica (temperatura del corpo, etc.);

illness, corrispondente all’esperienza soggettiva dello star male vissuta dal soggetto malato sulla base della sua percezione soggettiva del malessere, sempre culturalmente mediata;

sickness, termine riferito al significato “sociale” dello star male.

In effetti, se da un punto di vista prettamente biologico, fisiologico, tutti quanti non differiamo più di tanto gli uni dagli altri, dal punto di vista storico, biografico, ciascuno di noi è unico (Sacks) e irripetibile, originalissimo e, appunto, irriducibile nella sua singolarità e individualità anche dal punto di vista clinico.

C’è qualcosa che rende “unico” ogni caso clinico e tale variabilità individuale, che si collega all’insieme delle condizioni vitali ed esistenziali del paziente, influisce sia sulle forme assunte nei diversi casi dai sintomi patologici, sia sulla reazione di diversi pazienti agli interventi terapeutici.

Riguardo alla riflessione circa la pratica medica, ecco allora emergere il problema di come mettere in relazione l’unicità del caso clinico con le prerogative, a questo punto della evidence based medicine, ovvero con dati statistici, linee guida e procedure standardizzate. Il fatto è che, se ci si concentra troppo su aspetti quantitativi, si rischia di perdere di vista l’essenza, o comunque tratti salienti, del fenomeno che si osserva e che si vuole indagare, pervenendo a soluzioni inadeguate nella pratica clinica e nel processo diagnostico.

Perché, è bene ribadirlo – stavolta prendendo spunto da uno scritto di Susan Sontag – la malattia è qualcosa che possiede tratti anche simbolici per noi. La Scrittrice infatti invita a considerare la malattia come metafora. E questo vuol dire che se la malattia è anche simbolo, ha un di più di senso, che è un accumulo di significati, che la rendono molto più significante rispetto ai segni che la manifestano.

Per scongiurare allora il rischio di ritrovarci a praticare una medicina in-umana e inadeguata a gestire la complessità che ci caratterizza in quanto persone, è essenziale che nella metodologia clinica venga riconosciuta pari dignità a competenze sia semeiologiche che ermeneutiche.

La consapevolezza ermeneutica è quella che consente di tenere conto del fatto che non solo cambiano le conoscenze di fondo del medico interpretante (disease), ma anche quelle del paziente, il quale conferisce un senso diverso ai suoi sintomi a seconda della sua storia (illness) e del suo contesto (sickness).

Alla medicina e al medico, difatti, è richiesto non solo di spiegare le patologie e di curare (quando possibile) gli ammalati fino alla guarigione, ma anche di comprendere il senso del loro vissuto per prendersi cura di essi in maniera appropriata. L’orizzonte verso cui tendere è quello di integrare una visione oggettivante con una soggettivante, tenere insieme aspetti quantitativi e qualitativi.

A quanto pare, tutto quello che si sta dicendo, potrebbe essere definito una questione di sguardo, ma attenzione, perché gli studi sulla percezione ci dicono che la stessa cosa, a seconda di come viene vista, dà origine a descrizioni a tal punto diverse da divenire alla fine descrizioni di cose diverse. E i medici, gli infermieri, come vedono gli ammalati, le malattie?

C’è bisogno di formare lo sguardo dei futuri professionisti della salute in modo tale che risulti essere uno sguardo intenzionato ad esprimere in sé stesso una presenza attenta. Intendendo l’attenzione come uno dei movimenti fondamentali della relazione e, presupposto imprescindibile, di quello che è il circolo della comprensione e della spiegazione. L’attenzione infatti per la filosofa Maria Zambrano “non è se non la ricettività portata all’estremo, ossia diretta verso un ambito determinato della percezione o del pensiero: verso il mondo esterno o, riflessivamente, verso il mondo proprio”.

Si giunge così a constatare l’utilità che l’arte può avere per la medical education. Perché uno sguardo clinico attento, capace non solo di spiegare ma anche di comprendere, può appunto essere sviluppato anche attraverso l’uso e l’osservazione attiva dell’arte; tenendo conto che è duplice l’efficacia che si può ottenere in tal senso, sia in vista del benessere stesso del personale di cura (riducendo lo stress lavoro correlato e il rischio di burnout), sia sul piano delle competenze che lo riguardano (sviluppando l’occhio clinico e potenziando la capacità di empatia).

Questa disposizione è legata all’essenza stessa del manufatto artistico: l’opera d’arte può essere definita un “testo” aperto a molteplici livelli di lettura e le informazioni che offre possono essere correlate tra loro anche se con un diverso significato, andando a rappresentare come dei nodi concettuali di un ipertesto. Tutto ciò perché la produzione artistica è strettamente legata alla nostra identità e alla coscienza. “I linguaggi delle arti possono accogliere, trasformare e rendere intellegibile il magma emotivo originario e inconsapevole. Essi si offrono come specchio che facilita un’interiorizzazione più consapevole di contenuti mentali primitivi e il loro accesso al pensiero e al linguaggio” (Belfiore).

Pertanto, se vogliamo una medicina autenticamente umana, e dunque, non potendo prescindere dall’affrontare praticamente la complessità del comprendere la persona ammalata oltre che quella dello spiegare la malattia, l’uso dell’arte, come già ampiamente detto, può risultare particolarmente utile nella formazione dei professionisti della salute.

A conclusione di questa mia riflessione, mi sembra bello considerare la possibilità di contemplare una testimonianza particolarmente eloquente della meraviglia che è racchiusa in uno sguardo davvero attento e profondamente empatico, tenendo conto come spesso le immagini e soprattutto le esperienze vissute risultano essere molto più eloquenti di qualsiasi discorso o spiegazione ai fini della comprensione.

La testimonianza alla quale vorrei fare riferimento è un prodotto artistico pensato e agito da Marina Abramovic.  Nel 2010 l’Artista ha tenuto una performance al MOMA di New York, “The artist is present”. Per 3 mesi, 6 giorni a settimana, 7 ore di seguito, l’artista è rimasta seduta nel museo con una sedia di fronte a lei, occhi negli occhi con le persone che le si sedevano di fronte. Sguardo inteso come porta dell’anima. Un canale di comunicazione, silenziosa e prelinguistica, si apriva attraverso il rituale dello sguardo, nonostante la confusione e le distrazioni, un canale da cui scorreva emozione.

 

Bibliografia

Belfiore M., Colli M.L., Dall’esprimere al comunicare, Pitagora, Bologna 1998

Cosmacini G., La medicina non è una scienza, Raffaello Cortina, Milano 2008

Good B. J., Narrare la malattia, Einaudi, Torino 2006

Jaspers K., Il medico nell’età della tecnica, Raffaello Cortina, Milano 1991

Sacks O., L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Adelphi, Milano 2001

Sontag S., Malattia come metafora, Mondadori, Milano 2002

Spinsanti S., in Manuale di Medical Humanities, a cura di R. Bucci, Zadig, Roma 2006

Zambrano M., Dire Luce. Scritti sulla pittura, BUR, Milano 2013

 

Altri contributi pubblicati sulla rivista Senses and Sciences nel numero dedicato agli atti del workshop “Quale posto per l’arte nella medical education?” del 16 novembre 2018, promosso dal Laboratorio di Arte e Medical Humanities della Sapienza Università di Roma e dalla SIPeM – Società Italiana di Pedagogia Medica.