Dal paziente al crowdhero: perché la medicina narrativa può diventare una crowdmedicine
Scrive Eric Topol: “With approximately two billion users worldwide, smartphones are the most rapidly adopted technology in the history of man […] We are about to see a medical revolution with little mobile devices”.
Un modello interpretativo derivato dal marketing del largo consumo ci aiuta a cogliere l’impatto di questa rivoluzione. Come mostra il libro Winning the Zero Moment of Truth di Jim Lecinski, manager di Google, grazie al passaparola online, sempre di più l’esperienza precede il consumo. Attraverso i racconti e i vissuti degli amici virtuali nei forum, su Facebook, nei blog, conosco il prodotto/servizio, ne apprezzo le qualità, ne provo le emozioni, prima ancora di acquistarlo. Nel modello classico, l’esperienza segue l’acquisto, nel nuovo modello invece avviene un trasferimento di esperienza virtuale, che precede l’acquisto e convalida la scelta (il momento zero della verità).
Al centro di questo processo c’è il passaparola, cioè la condivisione di storie che avviene da persona a persona, attraverso canali informali di comunicazione. Orale e sfuggente in passato, oggi il passaparola, amplificato dalle tecnologie digitali, non vive più negli interstizi della comunicazione sociale, è accessibile a tutti con un click.
Questo nuovo spazio sociale di conversazione ha consentito la nascita di una nuova figura di consumatore, cittadino, paziente che potremmo definire come un crowdhero.
Il crowdhero è il soggetto che diventa protagonista attraverso la costruzione collettiva in rete delle sue esperienze e delle sue scelte di consumo, di relazione, di salute. Progressivamente diminuisce l’importanza delle agenzie di mediazione sociale tradizionali tra il soggetto e i suoi mondi di riferimento, che siano amicali, professionali, politici, sanitari. Le ricerche su Google e le reti virtuali, dagli amici su Facebook, ai membri delle comunità online, aprono al soggetto, di volta in volta, nuovi percorsi.
Al capitale economico, sociale e culturale, il crowdhero associa il capitale digitale, un capitale nuovo, spesso ancora sottovalutato.
Il capitale digitale è l’insieme delle autorappresentazioni, delle conoscenze, degli strumenti, delle esperienze, delle emozioni e delle relazioni che i soggetti costruiscono attraverso i canali digitali, dalle news, ai social network, alle app. E’ un capitale che il soggetto percepisce come risorsa per esplorare e costruire i propri mondi.
Il capitale digitale non deriva meccanicamente dal capitale economico, culturale o sociale. Vive e si alimenta grazie ai processi di disintermediazione rispetto alle agenzie di socializzazione e inculturazione tradizionali o ai percorsi socio-anagrafici.
Il capitale digitale nasce da un mix di fonti diverse per ognuno e costituisce una risorsa nuova per il soggetto e per i gruppi. L’impatto di questo capitale è ancora tutto da indagare, ma sicuramente sta progressivamente cambiando immaginario, comportamenti, accesso ai ruoli sociali, professionali e politici.Dobbiamo allora chiederci: come cambiano i processi sociali di simbolizzazione della malattia e di legittimazione della cura, se il paziente diventa un crowdhero e dispone di un capitale digitale?Le critiche alla rivoluzione digitale spesso si basano su un assunto, non sempre dichiarato: il sapere non medico, l’esperienza collettiva, il vissuto del paziente sono prevalentemente fuorvianti e ostacolano la pratica medica. La calligrafia incomprensibile e le difficoltà di accesso alla cartella clinica sono i simboli di questo assunto, molto più diffuso di quanto lo slogan del ‘paziente al centro’ non faccia credere.
Quale arroccamento disciplinare ed elitario può far credere ai medici che il sapere biomedico esaurisca le possibilità di conoscenza delle patologie e dell’effetto delle terapie? In un testo degli anni ’90, ancora oggi ricco di stimoli, l’antropologo Byron Good racconta come il percorso per diventare medico riduca il potenziale di osservazione e interpretazione dei giovani medici. Da un lato questo è ovvio, occorre applicare uno sguardo, un limite e un orizzonte per conoscere ed agire. Quello che è meno ovvio è che questi sguardi/limite possano essere considerati “naturali” e “immutabili”.
Alla naturalizzazione dello sguardo e quindi delle categorie e dei metodi, spesso la medicina ha unito la naturalizzazione del paziente in un corpo privo di biografia, inerte e quasi-morto, animato dall’unica vita interessante per il medico, quella del progredire o regredire della malattia. In questa ‘autopsia di un vivente’, la persona nel corpo diventa allora disturbo, noise, interferenza.
Anche su questo l’impatto della rivoluzione digitale è dirompente.
Il capitale digitale, nella sua varietà di fonti e intrecci, allarga l’esperienza del soggetto rispetto a se stesso, al suo corpo, alle cure, secondo modalità ancora poco esplorate. Il capitale digitale cambia radicalmente il viaggio con la malattia.
Nel microcosmo digitale si vivono esperienze diverse della malattia che interagiscono con l’esperienza personale e l’esperienza vissuta nello spazio familiare, sociale e medico.Tutto questo cambia la relazione con il medico. Il paziente non aspetta più il verdetto medico, è diventato un crowdhero, vuole appropriarsi del suo percorso, si mobilita attraverso i social network per confermare la diagnosi o per individuarla.Come cambia in questo quadro la medicina?Il capitale digitale ci stimola a rivisitare la classificazione tradizionale della malattia in disease, illness e sickness. Nel modello delle medical humanities: la disease è la malattia osservata e raccontata con il linguaggio e gli schemi interpretativi biomedici, l’illness è la malattia così com’è vissuta e raccontata dal paziente, la sickness è il ruolo sociale associato al malato, le rappresentazioni collettive della salute e della malattia, le gerarchie sociali nella classificazione dei corpi, delle malattie e dei malati, l’organizzazione sanitaria che riflette queste rappresentazioni.
Il capitale digitale consente una produzione biomedica, sociale e simbolica dell’esperienza di malattia che ibrida disease, illness e sickness. Crea una crowdmedicine, animata non da pazienti ma da crowdhero.
Il capitale digitale fa da mediatore strumentale, semiotico, relazionale ed emozionale tra il mondo del paziente e il mondo del medico.
Cambiano i processi di simbolizzazione della malattia, prima oscillanti tra il mondo metaforico del paziente, spesso non detto, e il linguaggio del referto. Il digitale sta diventando un’agenzia di simbolizzazione tanto più efficace perché agganciata alla condivisione dell’esperienza.In alcuni esperimenti sul dolore, il neurofisiologo Fabrizio Benedetti mostra l’attivazione delle stesse aree del cervello nel caso di somministrazione del farmaco o di un placebo. Benedetti racconta la cura come un atto rituale terapeutico, in cui non si somministrano solo farmaci ma anche spazi, odori, colori, parole del medico, cioè stimoli sociali.
Questi stimoli in passato erano costruiti e vissuti prevalentemente nel quadro della relazione medica. La disponibilità del capitale digitale, cambia la produzione degli stimoli sociali che entrano nel rituale dell’atto terapeutico.Alla parola medico-scientifica, si associa sempre di più la parola collettiva, i processi di simbolizzazione del male e dei suoi rimedi che si sviluppano nelle conversazioni sociali condivise online.
In questo quadro, diventa sempre più urgente per la medicina interrogarsi sui linguaggi della cura, sulle metafore in grado di accompagnare al meglio il percorso terapeutico, garantendone l’efficacia. Si tratta di capire qual è la relazione più adeguata “tra significante e significato”, tra “simbolo e cosa simbolizzata”, come già segnalava Lévi-Strauss nel saggio sull’efficacia simbolica.
I curanti dovranno sempre di più valorizzare le categorie e i metodi della medicina narrativa, acquisire sempre maggiori competenze semiotiche per co-costruire insieme al paziente/crowdhero una storia di cura, efficace per il paziente, e capace di aprire ai medici nuove prospettive sistemiche, ampliando il mondo/modo di vedere e raccontare il paziente e la malattia.
La medicina narrativa come crowdmedicine può favorire una nuova alleanza terapeutica che non pone problemi di tempi e costi, al contrario li migliora. Richiede piuttosto un cambiamento delle modalità di produzione del sapere e delle pratiche mediche. Un medico potrebbe mai sostenere che non ha tempo per guardare una tac o un’ecografia? Le storie devono guadagnare lo stesso peso gerarchico, perché possano effettivamente diventare uno strumento di nuova crowdmedicine, capace di valorizzare il capitale digitale, salvandoci dai rischi della disintermediazione.
Articolo di Cristina Cenci su Nòva