Medical Humanities come vaccino contro le difficoltà delle relazioni di cura
Nel 1919 Sir William Osler tenne ad Oxford il suo ultimo discorso pubblico sull’eterno dualismo tra scienze mediche e scienze umanistiche (Humanities), auspicando una riunificazione. Rivisitato ai giorni nostri il suo discorso cosa può davvero insegnare ai medici moderni altamente tecnologici, divenuti oramai fornitori o erogatori di servizi nei confronti dei pazienti divenuti di contro consumatori? Il messaggio di Osler è ancora valido ed utile o continuerà ad essere considerato una pretesa intellettuale?
Articolo di Maurizio Turturo su SIMeN
Gli autori di questo interessante editoriale ci dimostrano che le parole e le intuizioni di Osler, alla luce delle evidenze scientifiche più recenti, suonano attuali e per certi aspetti profetiche. Osler credeva fermamente al valore aggiunto che le Medical Humanities potevano fornire alla Medicina e non perse mai occasione di ricordarlo attraverso le sue parole, i suoi scritti e le sua gesta tanto da definirle gli “ormoni delle professioni di cura”.
I medici sono oggi la categoria professionale con il più alto indice di suicidi, sintomi di natura depressiva, burn-out, propensione ad abbandonare il proprio lavoro e di contro vengono sempre più considerati scarsamente empatici e percepiti sfavorevolmente dall’utenza. Le Medical Humanities possono trovare uno spazio importante nel percorso formativo dei professionisti della salute per minimizzare questi rischi ormai evidenti. La letteratura scientifica ci fornisce dati che dimostrano che gli studenti delle professioni mediche che si avvicinano alle humanities migliorano le loro capacità empatiche, la tolleranza, l’intelligenza emotiva, facendo diminuire l’incidenza di burn-out.