Le terapie curano, le relazioni guariscono: intervista a Salvo Catania
Intervista a Salvo Catania – Oncologo Senologo, ideatore del Blog www.ragazzefuoridiseno.it
Si laurea in Medicina a Catania nel 1974, negli anni in cui viene avviata la prima sperimentazione clinica della quadrantectomia per il cancro al seno, una nuova metodologia chirurgica di tipo conservativo messa a punto da Umberto Veronesi, che asporta solo la parte malata della mammella riducendo al minimo la mutilazione della paziente. L’oncologia è in pieno fermento, ma l’attenzione verso le pazienti è tutta concentrata sulla salvaguardia della vita e la riduzione dei danni al corpo. Di medicina narrativa ancora non si parla, nemmeno la psicologia ha assunto, fino a quel momento, un ruolo complementare nel trattamento clinico, la digital health è un’ipotesi futuristica.
Anche il dottor Catania, nei primi anni della sua professione, si concentra sul paziente come corpo da salvare, estrapola la malattia dalla persona e si dedica esclusivamente a quella, con atteggiamento asettico e mantenendosi distante da qualsiasi coinvolgimento empatico. Come gli era stato insegnato. Fino a quando il suo approccio viene letteralmente stravolto da due donne, Rita e Anna.
Dottor Catania, ci racconta come Rita e Anna hanno cambiato il suo modo di relazionarsi come medico?
La mia storia in realtà parte ancora prima dell’incontro, fondamentale, con Rita e Anna. Parte da quando un giovane medico, anche molto preparato, mi comunicò – a me, non a mia madre, come prevedeva il protocollo dell’epoca – la sentenza di morte di mia madre per un cancro all’utero. In realtà, mia madre non morì di cancro, ma quella sentenza fu una delle motivazioni più forti che hanno guidato la mia professione fino ad oggi: da un lato, il desiderio di guarigione a tutti i costi, la voglia di trovare sempre una terapia in grado di salvare le pazienti. Ma anche la capacità di saper comunicare con le pazienti e, quando necessario, con i loro familiari. Sono due elementi per me fondamentali di qualsiasi percorso di cura, e Rita e Anna sono le due donne che per prime mi hanno fatto capire l’importanza di questo connubio. Prima di loro, avevo già incontrato Ada, la responsabile dell’Associazione AttiveComePrima, e certo non fu un caso. Grazie a lei, imparai anche con mia madre, la mia prima paziente, a utilizzare anche un linguaggio non verbale, fatto di sguardi, gesti, abbracci.
Rita, un’altra mia paziente, non mi risparmiò un resoconto dettagliato su ciò che avevo detto che l’aveva ferita. Anna, infine, mi spiegò come la malattia fosse solo un aspetto della sua vita e non la sua vita intera, tanto meno la sua persona. Tutti questi elementi sono stati fondamentali nella mia ricerca di una nuova consapevolezza come medico e di un nuovo rapporto con la malattia ma soprattutto con le pazienti.
Lei ha deciso di dedicarsi ai tumori femminili, che colpiscono organi altamente simbolici per la vita e visceralmente connessi alle emozioni: nella sua osservazione, ritiene che vi sia una relazione tra eventi vissuti e sviluppo della malattia?
Direi di sì, come è vero anche il contrario: ci si può ammalare a seguito di un grande dolore, così come l’affetto e l’attenzione di chi ci è vicino può aiutarci a guarire. Il corpo e la psiche si intrecciano e si influenzano a vicenda. Per questo è necessaria una maggiore interazione tra l’approccio clinico e il rapporto personalizzato tra medico e paziente. Il vero successo di una terapia non è mai solo fisico, ma coinvolge tutti gli aspetti della vita del paziente.
Ha raccontato il senso di smarrimento provato quando a sua madre è stato diagnosticato un tumore all’utero. È stata quella la prima occasione in cui ha avvertito la necessità di una comunicazione empatica tra medico e paziente?
Sì. Come studente di medicina ero, fino a quel momento, molto concentrato solo sull’aspetto clinico e terapeutico. Non avevo mai considerato, e nessuno mi aveva spinto a farlo, il mio ruolo di punto di riferimento per il paziente e i suoi familiari. Invece il medico ha una responsabilità enorme, di cui deve essere consapevole. Io l’ho capito solo quando mi sono trovato dall’altra parte.
Lei ha creato un seguitissimo blog dedicato alle donne, non solo sue pazienti, affette da tumore al seno (www.ragazzefuoridiseno.it). Quali sono, secondo lei, le necessità principali di chi si trova ad affrontare questo percorso e come un blog può essere d’aiuto?
La decisione di creare un blog è scaturita dalla necessità di offrire a molte pazienti un punto di riferimento che non sempre riescono a trovare, proprio in un momento – quello della diagnosi, o successivamente – in cui è per loro fondamentale non sentirsi sole. La solitudine è uno dei sentimenti predominanti, e il blog può essere uno strumento utile ad arginare questa sensazione non certo positiva. Il blog offre sia un confronto empatico, con chi sta vivendo o ha vissuto un’esperienza simile, sia informazioni utili per medici e pazienti, con la possibilità di scambi di opinioni e confronti su terapie e modalità di intervento. Ad oggi il blog riceve un milione di visite ogni mese, e sul blog sono presenti oltre mezzo milione di commenti, spesso richieste di rassicurazioni che a volte le utenti si scambiano fra loro.
Ultimamente nelle discussioni online stiamo affrontando anche il fenomeno del “Cancer Ghosting”, una pratica piuttosto diffusa che porta anche le persone solitamente più vicine a sparire, ad allontanarsi anche in modo drastico, dopo la notizia di un tumore. Secondo i sondaggi che abbiamo fatto attraverso il blog, oltre il 65% dei pazienti oncologici ha ricevuto questo tipo di trattamento, permettetemi di dire piuttosto vigliacco, anche da parte di amici solamente virtuali. Chi ha voluto affrontare la questione direttamente, si è sentito rispondere “non sapevo cosa dire”. La comunicazione con le persone affette da tumore, dunque, rappresenta un problema per tutti, un problema che deve essere affrontato.
“Le terapie curano, le relazioni guariscono” è il suo motto. Quali sono i dati che abbiamo oggi a disposizione per avallare questa affermazione e quali, secondo lei, andrebbero raccolti per migliorare la qualità delle cure?
Dati ormai ne abbiamo quanti ne vogliamo. Anche internet negli ultimi anni è stato invaso da siti e blog dedicati all’argomento. È importante però distinguere tra lo storytelling, ossia il racconto personale della malattia, e ciò che invece rientra nella Medicina Narrativa, ossia una metodologia d’intervento clinico-assistenziale basata su una specifica competenza comunicativa, come definita dall’ISS nelle linee guida del 2015. Oggi c’è sicuramente bisogno di ampliare i dati riguardanti la Medicina Narrativa, formare medici competenti nella comunicazione con il paziente e alla formulazione di un percorso di cura condiviso con il paziente.