Covid19 e i suoi effetti sulla salute mentale collettiva: un’intervista al Dott. Giuliano Castigliego, autore de “Il coraggio della fragilità”

Covid19 e i suoi effetti sulla salute mentale collettiva: una interessante ed approfondita intervista al Dott. Giuliano Castigliego,  specialista in psichiatria e psicoterapia, che lavora come psichiatra e psicoterapeuta ad indirizzo analitico a Coira, Svizzera, membro dell’Accademia psicoanalitica della Svizzera Italiana e della società Balint (Svizzera),  formatore, supervisore e conduttore di gruppi Balint.

Il Dottor Giuliano Castigliego è l’autore de Il coraggio della fragilità (Longanesi), reperibile al link: https://www.longanesi.it/libri/giuliano-castigliego-il-coraggio-della-fragilita-9788830456303/

Si tratta di un agile manuale che affronta il tema della salute mentale durante – e dopo – la pandemia: come sfruttare a nostro vantaggio quelle che chiama “le fratture della psiche”?

Questa ed altre domande nell’intervista:

Dottor Castigliego, grazie intanto per aver accordato questa intervista su un tema così presente; la prima domanda che le poniamo, per iniziare ad addentrarci nel tema della salute psicologica in relazione alla pandemia, è:

Perché la pandemia risulta essere un evento sconvolgente anche dal punto di vista psicologico? E qual è, o sarà, la sua portata?

La pandemia attuale da SARS-CoV-2 oltre che drammatici danni alla salute fisica delle persone e all‘equilibrio sociale ed economico della collettività (impoverimento delle risorse, grave accentuazione delle disparità economiche) sta provocando gravi ripercussioni sulla salute mentale individuale e collettiva. Ci ha scaraventato in uno di quegli scenari distopici evocati dai film degli anni novanta in cui una serie di catastrofi sconvolgeva il mondo portandolo a un passo dall’estinzione. Le drammatiche conseguenze sanitarie, sociali ed economiche e il carattere globale della pandemia comportano, e verosimilmente comporteranno per un tempo ancora imprecisato e imprecisabile, la perdita della «normalità» cui eravamo precedentemente abituati, così come del senso di sicurezza e di prevedibilità che di quella normalità facevano parte.
Il grande sociologo Baumann nel suo ultimo saggio „Retrotopia“ ci aveva avvisati constatando che il pendolo della mentalità pubblica ha cambiato rotta. Ora non insegue più il futuro, come aveva fatto negli ultimi secoli con l’idea di progresso, ma il passato, idealizzandolo. Scrive Baumann:“ „Tocca ora al futuro, deprecato perché inaffidabile e ingestibile, finire alla gogna ed essere contabilizzato come voce passiva, mentre il passato viene spostato tra i crediti e rivalutato, a torto o a ragione, come spazio in cui la scelta è libera e le speranze non sono ancora screditate“ „Zygmunt Bauman, Retrotopia, Laterza, Roma 2017.
L’epidemia del coronavirus e l’associata «infodemia» ci appaiono dunque come la conferma che il futuro, il cui fascino era già in crisi, è inaffidabile e ingestibile.
La pandemia inoltre aggrava, come già molti studi dimostrano, il malessere di persone già sofferenti di disturbi psichici.

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In cosa differisce – se lo fa – da altri eventi critici che hanno interessato l’umanità: disastri ecologici, attentati, guerre? Spesso infatti abbiamo sentito, soprattutto durante le prime fasi della pandemia, questo paragone semantico con lo “stato di guerra”, che ha portato con sé il gergo militaresco in relazione alla pandemia (task force, battaglia, trincea, lotta etc).

Come già dicevo, l‘attuale pandemia è un evento globale che affligge l’intero pianeta a svariati livelli, sanitario, politico, sociale, economico, psicologico, comunicativo (infodemia) e mette radicalmente in discussione il senso di sicurezza cui la nostra società iper-tecnologica ci aveva abituato. Paradossalmente a mettere in crisi le nostre arroganti certezze è un virus, una struttura organica infettiva infinitesimale, che non fa neanche parte degli esseri viventi ma si colloca a cavallo tra gli esseri viventi e la materia inanimata. Eppure in pieno Ventunesimo secolo, dopo essere già da tempo sbarcati sulla Luna, aver inviato sonde su Marte e addirittura al di fuori del nostro sistema solare, siamo costretti a rimanere chiusi in casa per colpa di un virus. Chissà cosa ne penserebbe Freud, che sottolineava le mortificazioni subite dall‘uomo nella storia della civiltà, la prima ad opera di „Copernico, che ha tolto all’uomo la centralità del suo posto nell’universo, la seconda di Darwin, che l‘ha privato dell’illusione di centralità nella natura, la terza ad opera dello stesso Freud, che ci ha dimostrato come l’io che non sia più padrone in casa propria, soppiantato dall‘inconscio. Una quarta mortificazione ad opera di un virus?
Si potrebbe interpretare il gergo militaresco usato a sproposito in riferimento alla pandemia come espressione della nostra impotenza e del vano desiderio di debellarla, con stupido machismo, militarmente.

Nel suo manuale di “resistenza” passa in rassegna quelle che definisce “fratture” della nostra psiche; che cosa intende?

Immaginiamo di poter riprendere i nostri processi psichici dall’alto, come se fossimo in grado di sorvolare la nostra mente con un drone dotato di macchina fotografica. Cosa vedremmo? probabilmente individueremmo, secondo quanto suggerito dallo psichiatra americano Ronald W. Pies nel suo articolo Care of the Soul in the Covid-19 https://www.psychiatrictimes.com/coronavirus/care-soul-time-covid-19 cinque linee di frattura, cinque moti dell’animo che la percorrono. I loro nomi sono impotenza, dolore, solitudine, diffidenza e senso di disorientamento. Personalmente aggiungerei una sesta linea di frattura: l’ansia.
L‘impotenza di fronte a un virus sconosciuto, una malattia mortale, per il momento solo parzialmente curabile, un vaccino in allestimento ma non ancora pronto, un sistema sanitario sovraccarico e prostrato, una classe dirigente impreparata e indecisa.  
Il dolore costituisce (vd. oltre) il nucleo fondamentale del processo di lutto. Accanto al dolore generato dalla morte e/o malattia di persone a noi vicine, vi è anche quello che insorge per la perdita del lavoro, della sicurezza finanziaria, sociale, familiare, per la scomparsa di quella condizione di normalità associata a un senso di sicurezza e minimo benessere. Nel momento in cui avremmo più bisogno di aiuto, siamo e ci sentiamo più soli. È il paradosso della solitudine di ogni pandemia e vale a maggior ragione per coloro che, vivendo soli, avrebbero maggior bisogno di compagnia, conforto, sostegno, come gli anziani in casa di riposo e tutti gli individui ai margini della società, che dalla pandemia rischiano di essere sospinti oltre.
La diffidenza è conseguenza inevitabile di ogni epidemia, come ci insegnano le antiche pestilenze. La dinamica stessa del contagio instilla un crescente senso di diffidenza verso l’altro, che si esprime dapprima nell’impiego ossessivo di misure di protezione e ben presto anche con atteggiamenti ostili nei confronti degli individui ritenuti, a torto o a ragione, portatori o diffusori della malattia.
Disorientamento. Il nostro ruolo, il nostro status, le abitudini su cui avevamo fondato il nostro senso di sicurezza sono oggi minacciati sia dalle misure di contenimento che dalla malattia stessa. È per certi versi come se ci venisse a mancare il nostro luogo e modo di stare al mondo, il nostro ubi consistam. Ansia. La pandemia, come ogni altra causa di stress, tende a far aumentare il nostro stato di tensione, il nervosismo, l’irrequietezza, l’irritabilità, che possono sfociare in occasionali stati d’ansia, attacchi di panico, ridotto controllo delle nostre emozioni e dei nostri impulsi. Studi dimostrano che i sogni risulterebbero più intensi, vividi, facilmente accessibili alla memoria e permeati da atmosfere e contenuti maggiormente negativi di quanto non avvenga, in media, in tempi normali, come era peraltro già avvenuto negli USA dopo l’11 settembre.

Ci suggerisce poi una strada per affrontare, elaborare e soprattutto usare a nostro vantaggio le “fratture della psiche”. In questo senso parla di una dote umana necessaria: quella di accettare l’imperfezione, l’imprevisto, la perdita, la fragilità. In che modo ciò può aiutare a ritrovare l’equilibrio psicofisico?

Distinguerei due piani, due tipi di processi psicologici, uno più superficiale che riguarda le già citate fratture della psiche, l‘altro più profondo che attiene all‘elaborazione a lungo termine del dolore, il nucleo del processo di lutto. Impotenza, solitudine, diffidenza, disorientamento, ansia sono stati d’animo certo dolorosi, che possono suscitare in noi preoccupazione, paura, anche smarrimento. Se però adeguatamente compresi e accolti, sono destinati a scomparire. Sono una sorta di reazione di adattamento della nostra mente a circostanze negative eccezionali e lasciano generalmente il posto a una favorevole reazione di trasformazione interiore. Di fronte ad un‘ondata eccezionale di freddo siamo dapprima pure infreddoliti, passivi, intirizziti fino a tremare dal freddo ma proprio il tremore serve al nostro corpo a creare calore, far aumentare la temperatura fino a ché ci diamo una mossa e adottiamo strategie più adeguate. Il dolore invece – sia quello generato dalla morte e/o malattia di persone a noi vicine, sia quello provocato dalla perdita del lavoro, della sicurezza finanziaria, sociale, familiare, dalla scomparsa di quella condizione di normalità associata a un senso di sicurezza e benessere – può essere superato solo attraverso il lutto. Lo so, lutto è una parola che fa paura e può sembrare a prima vista fuori luogo in questo contesto se, non ci sono, come per fortuna nella maggioranza dei casi di malattia, morti. Ma il lutto è il processo psicologico che ci consente di affrontare e superare ogni perdita. Quando vogliamo o dobbiamo prendere definitivamente congedo da una persona, un‘amicizia, un amore, un lavoro, un oggetto caro, una carica, una stagione o una particolare condizione della nostra vita, lo facciamo attraverso un processo di lutto che ci consente di disinvestire le energie dall‘oggetto perduto per tornare a investirle poi altrove. La classificazione del processo del lutto che si è imposta in ambito scientifico è quella della psichiatra svizzera Elisabeth Kübler-Ross, che l’aveva originariamente sviluppata per descrivere il decorso dei pazienti cui veniva diagnosticata una malattia terminale. Si è successivamente riscontrato che tale modello vale anche per l’elaborazione della perdita di una persona cara o di un bene ideale (la patria, un ideale). Il modello prevede cinque fasi: negazione/rifiuto, rabbia/emozioni forti, patteggiamento/contrattazione, afflizione e accettazione. Nella prima fase il lutto viene negato, rifiutato, non lo si vuole accettare per vero (le parole morto, morta, morte sono infatti spesso bandite, tabù). Nella seconda fase si sviluppano irritazione, rabbia, ostilità verso istituzioni, regole, persone, il defunto stesso. Sono frequenti irritabilità, scoppi di rabbia, disperazione, ma anche Schadenfreude (soddisfazione per la sofferenza dell’altro), più in generale emozioni forti e atteggiamenti aggressivi latenti o manifesti. Nella terza fase si tende a patteggiare con Dio o la Natura, in un’impossibile trattativa. Nella fase dell’afflizione si realizza pienamente la perdita, che appare in tutta la sua tragica irreversibilità. Nella quinta fase, se il processo del lutto si conclude correttamente, la perdita viene dolorosamente accettata. Ho cercato di descrivere queste fasi e le loro possibili alterazioni attraverso personaggi della letteratura e del mito: Orlando, Aiace, Don Abbondio, Lisabetta da Messina, Eco. Queste tappe non sono da intendersi come le stazioni di un percorso piano e lineare, piuttosto quali fasi che si sovrappongono e sconfinano reciprocamente l’una nell’altra lungo un sentiero contorto che si può anche, in parte o in tutto, ripetere. Ma perché parlare di lutto in relazione alla crisi del coronavirus? Innanzitutto perché purtroppo il coronavirus uccide e ci priva dunque di chi ci è caro, genitori, partner, figli, amici, parenti, colleghi, ma anche e soprattutto perché questa pandemia, come già dicevo, comporta la perdita della «normalità» cui eravamo precedentemente abituati, così come del senso di sicurezza e di prevedibilità che di quella normalità facevano parte.

È vero che una pandemia non si supera ma si attraversa? Secondo lei, quindi, cosa ci resterà come bagaglio, nel momento in cui ci troveremo finalmente dall’altra parte? 

Credo che ognuno trovi il proprio senso nella pandemia, un senso che non è dato oggettivamente ma deve/può essere faticosamente conquistato da ciascuno di noi. Uno degli aspetti principali su cui si fonda la resilienza è proprio la nostra capacità (e volontà) di attribuire un nuovo significato ai nostri dolorosi vissuti attraverso un reframing che ci consenta di interpretare la nostra esperienza sotto un’altra luce, da un’altra prospettiva, sulla base di quello che Floridi chiama il nostro “capitale semantico”. „Rainer Maria Rilke in una delle sue Lettere a un giovane poeta sostiene che proprio attraverso la tristezza entra in noi il nuovo che ci trasforma. Scrive Rilke: “Le tristezze […] sono i momenti, in cui qualcosa di nuovo è entrato in noi, qualcosa di sconosciuto; i nostri sentimenti ammutoliscono in casta timidezza, tutto in noi indietreggia, sorge una calma, e il nuovo, che nessuno conosce, vi sta nel mezzo e tace. Io credo che quasi tutte le nostre tristezze siano momenti di tensione, che noi risentiamo come paralisi, perché non udiamo più vivere i nostri sentimenti sorpresi.” (Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, trad. di Leone Traverso, Adelphi, Milano 2014) Mi auguro che così accada anche a noi, ora. Spero che la tristezza che ciascuno di noi ha percepito, a proprio modo, nella crisi, incontri in noi adeguato spazio mentale e sufficiente tempo di riflessione per trasformarsi in qualcosa di nuovo, sia esso un nuovo atteggiamento verso il nostro corpo, l’ambiente che ci circonda, noi stessi o il nostro prossimo. La pandemia cambierà sicuramente in modo significativo il nostro modo di concepire la medicina, il digitale, la formazione, il lavoro, speriamo anche l’economia, rendendola più equa e giusta. Non potrà però trasformarci magicamente. Se vogliamo cambiare, dobbiamo farlo noi, individualmente e collettivamente, traendo spunto, da un trauma che può diventare sfida di coraggio e di umanità. Non una trasformazione magica ma una trasformazione tragica (Wurmser).

Alcune considerazioni personali, Dottor Cstigliego, a conclusione: 

“Parlare delle emozioni che la pandemia e le sue ripercussioni scatenano in noi, dar loro un nome, esprimerle, condividerle, ascoltare quelle altrui, discuterne, è un modo per superare la paralisi della paura, la trappola della rabbia. Nel dialogo possiamo realizzare che la tristezza è un sentimento comune, normale, che può affliggere tutti noi quando ci sentiamo impotenti di fronte a un evento doloroso e inquietante che ci priva dei nostri consueti punti di riferimento. Confrontarci con i nostri sentimenti e quelli altrui in un dialogo che diventi scambio e rapporto umano – e se necessario terapeutico- è anche il modo più efficace per prevenire lo stress e i disturbi psichici, che non cadono dal cielo ma si sviluppano dentro di noi sulla base dei fattori stressanti cui siamo sottoposti e ci sottoponiamo. Anziché opporre allo stress le nostre illuminate convinzioni illudendoci che siano infallibili, possiamo renderci conto di ciò che siamo costretti a vivere, elaborarlo dentro di noi, attribuirgli un significato personale, unico, che non ha più a che fare con la sola biologia ma diventa una parte della nostra storia di vita. Naturalmente anche il più sofferto processo di elaborazione psicologica non ci assicura la salute eterna, né l’immunità ai disturbi psichici. Eppure scavare dentro di noi, conoscerci, elaborare quello che ci accade, dargli senso, farlo nostro, condividerlo aprendoci al dialogo è a tutt’oggi l’innovazione più duratura che conosciamo”. https://giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com/2020/10/04/voltare-pagina/

Ho inserito in ogni capitolo alcuni brani musicali. Spero siano un modo più immediato e coinvolgente per “sentire” i sentimenti che illustro lasciando che la musica faccia sperimentare al lettore quello che non riesco compiutamente ad esprimere con le mie parole.

Giuliano Castigliego