Considerazioni di un medico-chirurgo sulle Medical Humanities

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“Il medico umanista deve conoscere questi aspetti della vita di relazione che caratterizzano la sfera umana. In ogni paziente ci può essere un interesse per la musica, la letteratura, il cinema, lo sport, la pittura. Questi argomenti possono diventare la chiave giusta del curante per aprire la porta dell’anima di chi soffre e poter accedere, così, al bagaglio di informazioni che il paziente custodisce, utili per un riuscito percorso dapprima diagnostico, successivamente terapeutico. È il miracolo dell’empatia. E la buona letteratura può essere molto utile anche a tutti coloro che hanno abbracciato la nobile professione medica!”

Articolo di Pasquale Simone (Primario chirurgo, Casa di Cura privata “Di Lorenzo” Avezzano)

Le cosiddette Medical Humanities rappresentano una branca di sapere e di studio abbastanza recente, ma secondo me sono piuttosto una semplicemente riscoperta.

Perché riscoperta? Ma perché il connubio tra l’arte, nelle sue varie ed affascinanti espressioni e la medicina, è antico, naturale e pressoché coevo alla nascita della nostra civiltà occidentale.

Il simbolo in assoluto di questa idea è il Dio Apollo, il più invocato nella mitologia, che era allo stesso tempo il protettore dell’arte e della medicina

Analizziamo alcuni esempi.

Citerei per prima Saffo e la sua celeberrima ode: “simile agli dei a me sembra quel giovane che a te siede accanto e ti ascolta dolcemente parlare e ridere amorosamente…”.

È un frammento poetico amato, ammirato nonché imitato da poeti quali Catullo, Foscolo, Quasimodo i quali, pur grandi, non hanno potuto gareggiare per bellezza con l’originale.

Nel suo prosieguo il brano contiene una piccola, ma originale summa di semeiotica medica. “Questo mi fa tremare il cuore in petto”. Ci troviamo davanti a un episodio di tachicardia parossistica.

“Come ti vedo, non mi viene più la voce”. È un momento di paresi delle corde vocali, ovvero di afonia transitoria.

“E un fuoco sottile subito mi corre sotto la pelle”. È il brivido, ovverosia la scarica di adrenalina che precede l’iperpiressia.

“E non vedo più con gli occhi”. Sono gli scotomi.

“E mi rombano le orecchie”. Sono gli acufeni.

“E il sudore gocciola”. È la sudorazione che accompagna l’ipotensione acuta.

“E divento più scura dell’erba verde”. Sopraggiunge la cianosi.

Notiamo come questo geniale artifizio all’inizio del verso del polisindeto – la ripetizione quasi ossessiva della vocale “e” – accentui la rapida progressione della sintomatologia che parte dall’iniziale malessere per raggiungere l’acme con il collasso cardiocircolatorio.

Questo camminare insieme della letteratura e della medicina continua sicuro e spedito nel tempo.

La peste, la malattia per antonomasia che ha terrorizzato l’umanità per secoli, è un “topos” letterario ricorrente e che ci ha lasciato pagine di letteratura memorabili.

Tucidite, Lucrezio, Boccaccio, Manzoni e nel secolo scorso Camus e Becket, hanno tutti trattato da par loro questo argomento.

Forse la narrazione più incisiva è quella dello storico greco.

Nella peste di Atene gli avvenimenti sono presentati con dovizia di particolari, con drammaticità, osservati da Tucidite quasi fosse un medico e con spunti profondi di riflessione sulle reazioni umane: i moribondi che si trascinano alle fontane, da ardentissima sete spinti; i familiari che, stanchi di piangere risultano indifferenti alla perdita dei cari; i templi traboccanti di cadaveri; i sopravvissuti, spinti dalla smania di vivere, senza più rispetto delle leggi morali e civili.

È l’esaltazione del potere della scrittura, della forza devastante del ferale morbo e il dominio assoluto della “tyche” – il caso – che determina inesorabilmente i destini degli uomini.

Nessuno ha saputo eguagliare il vigore di Tucidite, forse solo Lucrezio e il Manzoni. Di quest’ultimo mi torna alla mente e sempre mi commuove l’episodio della madre di Cecilia: “scendea da uno di quegli usci e veniva verso il convoglio, una donna, il cui spetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa… addio Cecilia, riposa in pace, domani verremo anche noi, per restare sempre insieme…”. Esempio raro di lirismo inserito in una pagina di prosa.

Questi splendidi esempi di poesia e prosa sono davvero il nutrimento dell’animo e dell’intelletto e il loro respiro universale, immortale, tutti ci accomuna.

Sicché penso che la familiarità con i sentimenti quali l’amore, la sofferenza, l’altruismo, l’egoismo, il coraggio, che i grandi scrittori sanno magistralmente narrare siano per il medico una preziosa palestra atta ad un adeguato allenamento nell’analisi e nella interpretazione della malattia senza prescindere dalla centralità della persona.

Il medico umanista deve conoscere questi aspetti della vita di relazione che caratterizzano la sfera umana. In ogni paziente ci può essere un interesse per la musica, la letteratura, il cinema, lo sport, la pittura.

Questi argomenti possono diventare la chiave giusta del curante per aprire la porta dell’anima di chi soffre e poter accedere, così, al bagaglio di informazioni che il paziente custodisce, utili per un riuscito percorso dapprima diagnostico, successivamente terapeutico.

È il miracolo dell’empatia.

Posso dire con certezza che ogni volta che questo magico momento di incontro nella mia lunga carriera di medico si è verificato, mi sono sentito intimamente e profondamente arricchito.

Era forse un caso che non molto tempo fa per accedere agli studi di medicina bisognava provenire dai licei?

Altresì singolare è il rapporto tra arte visiva e medicina.

L’anatomia umana, fondamento di tutte le branche mediche, restò completamente sconosciuta fino al Rinascimento.

Sino ad allora le conoscenze dell’arte medica si basavano tutte su Galeno, grande filosofo e medico del III secolo d.C., che però non aveva mai fatto una dissezione sul corpo umano.

I suoi studi anatomici riguardavano solo gli animali, in particolare la scimmia, e da essi, per conseguenza, venivano trasferiti agli uomini.

Furono gli artisti, in particolare Leonardo e Michelangelo, in modo più saltuario e nascosto il primo, il secondo in modo più regolare e consentito, a studiare con scientificità l’anatomia, nell’ansia, mai del tutto soddisfatta, di rappresentare quanto più vicino alla realtà, nelle loro opere, il corpo umano.

Solo dopo sopraggiunse Andrea Vesalio, il quale, nella liberale Repubblica di Venezia, ebbe il permesso di eseguire pratiche autoptiche. All’età di 22 anni conseguì la cattedra di anatomia all’Università di Padova.

La sua grande, fondamentale innovazione per lo sviluppo scientifico degli studi anatomici, poi divenuta pratica abituale, fu l’eseguire di persona la dissezione sul cadavere, sicché le sue osservazioni erano dirette e non più mediate.

Prima il Maestro nell’anfiteatro anatomico si posizionava sul banco più alto e con il testo di Galeno davanti illustrava l’autopsia eseguita dall’inserviente “sector” sul tavolo settorio posto al centro, in basso.

Possiamo immaginare con quanta attendibilità!

I risultati di tali studi, finalmente condotti con un certo rigore scientifico, costituirono quell’opera mirabile “De fabrica corporis umani” stampata nel 1543, preziosa non solo per le osservazioni scientifiche, ma anche per le tavole anatomiche disegnate nientemeno che dalla scuola di Tiziano, in particolare dal suo allievo Van Calcar.

Il destino imponderabile delle vicende umane ha voluto che nello stesso anno Copernico pubblicasse “De revolutionibus orbium caelestium” con la definitiva affermazione della teoria eliocentrica, sicché a buon ragione si può affermare che l’anno 1543, grazie a queste due opere fondamentali, ha significato l’inizio dell’era moderna.

Mi piace, alla fine di queste mie semplici note, rivolgermi in particolare ai giovani colleghi che hanno abbracciato con entusiasmo la nobile professione medica, nonostante l’eccessiva burocratizzazione delle procedure e l’esagerato contenzioso medico – legale, di rifugiarsi, ogni tanto, nella buona letteratura.

Essa può esserci di tanto aiuto. Cito un esempio. Di Tolstoj, in Guerra e Pace c’è una pagina straordinaria: il principe Andrea Bolkonskj, ferito gravemente nella battaglia di Austerlitz, pensa di morire, spalanca gli occhi e osserva sopra di sé lo spettacolo della volta celeste.

Ne resta affascinato.

Il cielo stellato, di notte, è sempre sopra di noi, ma, perché sempre distratti, poco lo notiamo. In quella tragica circostanza, però, lo vede immenso, straordinariamente luminoso.

Mentre gode di questa meraviglia, sente delle voci approssimarsi.

È Napoleone, che con i suoi generali, come di sua abitudine visiona il campo di battaglia, per vedere come si fossero comportati i suoi soldati.

Il Principe Andrea odia Napoleone, perché è il suo acerrimo nemico, ma nello stesso tempo, come grande condottiero, lo teme e lo ammira.

Eppure, davanti all’immensità del cielo stellato, quel grande uomo, che con le sue decisioni sconvolgeva i destini delle nazioni, gli appare minuscolo, quasi insignificante.

È chiaro il significato di questo ardito accostamento. Se dentro ognuno di noi albergano riferimenti importanti, assoluti, come il cielo di Austerlitz, i problemi, anche quelli più grandi, apparentemente irrisolvibili, si ridimensionano e quasi sempre si superano.